L'attore Pietro Romano: "Amo definirmi Figlio d’Arte”
Una passione ereditaria e condivisa, Pietro Romano si racconta come attore, tra amicizie nate sul set e sogni futuri.
Caro Pietro, come hai iniziato la tua carriera di attore?
Amo definirmi “figlio d’arte”, per quanto con atteggiamento quasi reverenziale nei confronti dell’espressione: credo che la mia carriera non abbia un evento in testa, ma, in qualche modo, sia nata con me. Entrambi i miei genitori vengono dall’incantevole, straordinario mondo della lirica (più precisamente, papà ebbe l’audacia – e il talento! - di abbinarvi anche il cinema, con la fortuna di lavorare a fianco ai più grandi: Fellini, Totò, Peppino De Filippo, Fabrizi, Magnani, Gassman…) e, sin da bambino, dall’età di 11 anni, calcai il palco del Teatro dell’Opera, come piccolo attore e come voce bianca, ma da ancor prima sentivo scalpitare in me l’irrefrenabile passione per l’esibizione e per la costruzione dei dettagli. Da bambino improvvisavo piccoli film casarecci, con l’aiuto di mia sorella, paziente ed indispensabile spalla, ma anche pièces teatrali, praticamente per gioco. E non ho mai più smesso…

Qual è stato, ad oggi, un attore o un'attrice con cui hai lavorato e con cui sei rimasto in amicizia?
Mi è capitato di lavorare con “colleghi famosi”, coi quali ho mantenuto ottimi rapporti d’amicizia, ma credo di dover menzionare per primo, il grandissimo Gino Landi che mi vide in un mio one man show, dopo il quale mi propose una prima collaborazione, in Giochiamo all’Operetta, delizioso spettacolo col sapore artistico d’altri tempi, da lui scritto e diretto. Da lì nacque una sorta di percorso insieme: mi diresse anche ne Il Conte Tacchia, in scena al Brancaccio, nel mio ultimo one man show, Sono Romano e si sente… Tengo ad esprimermi in termini d’amicizia, per quel che riguarda il maestro Landi, perché davvero mi ha trattato, umanamente professionalmente, come un figlio, guidandomi nell’esperienza artistica, puntando alte scommesse su quello che lui definisce il mio “talento” e trasmettendomi segreti e chicche del nostro, che è il mestiere più bello del mondo.
Un altro caro amico e grande professionista che mi piace menzionare in risposta alla tua domanda è, senza dubbio, Leone Pompucci, col quale ho avuto l’onore e il piacere di lavorare… Ebbi la fortuna, inoltre, di cominciare una collaborazione con Fabio Troiano, per un progetto rimasto a tutt’ora in cantiere… dalla quale nacque un bel rapporto umano.
Grandi sorprese mi hanno riservato gli incontri con Max Tortora, Maurizio Mattioli, Pippo Franco, Gianfranco D’Angelo, Sebastiano Lo Monaco, artisti e persone che hanno segnato assolutamente la mia carriera; e ancora Carlo Lizzani, Antonella Steni, Giuseppe Patroni Griffi, Mario Monicelli, che volle incontrarmi in occasione del suo ultimo film: non ebbi il ruolo, perché ero troppo alto, ma fu una chiacchierata che non dimenticherò mai. Altri modelli ai quali mi sono ispirato, sempre artisticamente e dal punto di vista umano, che ho avuto l’onore di conoscere professionalmente, sono Pietro Garinei e Luigi Magni, anche loro esempi di superlativa signorilità che, pur avendomi conosciuto giovanissimo, mi seguirono sempre con affettuosa fedeltà. Ancora, Mario Donatone e, indimenticabile, Glauco Onorato… Perdonami se mi permetto di allargare l’orizzonte della risposta, ma l’amicizia nel lavoro è veramente un tesoro preziosissimo e l’aver scoperto tanta straordinarietà in altrettanto straordinarie umanità, credo meriti attenzione.
Nulla togliendo a tutti gli altri, che comunque stimo tanto artisticamente, ricordo volentieri Alfiero Alfieri, scomparso lo scorso anno, col quale, giovanissimo, cominciai la mia carriera teatrale nella Compagnia Checco Durante: ad Alfiero devo comunque molto e lo ricordo sempre con grande affetto. Con lui cito un altro pilastro della romanità, con cui ho avuto l’onore di collaborare a lungo, Renato Merlino, (il mio vero talent scout) uno tra i più grandi poeti e cultori romaneschi: il percorso legato alla commedia dialettale, ha assolutamente definito e maturato la mia comicità, formandomi ed appassionandomi fino a rendermi, a tutt’oggi – dicono – “l’erede conservatore” del dialetto romanesco, teatralmente parlando, attributo che ricevo con grande riconoscenza e altrettanta fierezza.
Invece, un regista o un attore/attrice con cui ti piacerebbe lavorare?
Se proprio dovessi sognare ad occhi aperti, mi piacerebbe lavorare con la Signora Loren, splendida ed indiscussa regina della nostra storia artistica, meravigliosa icona del cinema italiano… Poi, naturalmente, Sergio Castellitto, sicuramente tra i più grandi del momento, e ancora, tra i sogni nel cassetto, aggiungo la regia di Sorrentino. Poi, Roberto Benigni, al quale, peraltro, si dice che somigli… Ma, mi sia consentito, in particolare e soprattutto in questo momento, avrei desiderato lavorare con l’immenso, ineguagliabile maestro Gigi Proietti. Per me è stato il modello assoluto, la perfezione, l’istrionicità del più alto livello artistico. E, mi permetto di aggiungere, a lui ho dedicato questo anno strampalato, per noi gente di carrozzone, difficile e spaventoso, doloroso e splendido al contempo: è perché esistono artisti come lui che varrà sempre la pena di credere nel nostro lavoro, anche nel momento in cui si rischia di essere incompresi, anche quando si esce in sordina dalle priorità del proprio stesso Paese, anche quando il sipario resta chiuso a forza: è per aver respirato il calibro di Gigi Proietti che io non ho mai dubitato che, costi quel che costi, questa non è solo la mia professione, ma la mia finestra sul mondo, dalla quale entra l’aria di cui ho bisogno per vivere.

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